Dal centralismo (vizio d’origine) alla disgregazione di velluto
di Hic Rhodus (Gianfranco Pasquino)
Roma, 10 gennaio 2011
Detto autorevolmente dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che alle origini dell’unità d’Italia si trova un “vizio centralista”, diventa opportuno riflettere sulla critica. Non è il caso di imbastire un intenso dibattito fra gli storici, includendovi la loro ala marciante dei revisionisti. E non servirebbe a nulla farlo: né al molto eventuale “federalismo” né alla costruzione di una “memoria condivisa”.
Con il dovuto rispetto per il Presidente, che storico non è, ma che rischia di diventare fin troppo revisionista, nel corso dell’unificazione italiana il supposto federalismo non esistette in nessun modo come opzione concretamente perseguibile. Nel migliore dei casi, Carlo Cattaneo, colui che viene considerato il federalista risorgimentale par excellence, pensava a qualche forma di protezione e di valorizzazione delle peculiarità locali. Non era realistico neanche per lui, a prescindere dai rapporti di forza, credere che esistessero comunità originarie, di dimensioni regionali o più ampie, che concordassero fra loro quali poteri, che spesso neppure avevano, consegnare ad un eventuale governo federale, e come farlo. No, l’opzione federale non avrebbe mai potuto diventare la “virtù d’origine” dello Stato monarchico italiano. Senza la monarchia dei Savoia, poi, non ci sarebbe stata nessuna unità d’Italia.
Semmai, gli autonomisti, allora e probabilmente anche oggi, avrebbero dovuto sottolineare l’importanza delle municipalità italiane. Comuni liberi e capaci di autogoverno, in alcuni casi già da molti secoli: questa è stata la vera peculiarità italiana, sostanzialmente eccezionale in Europa.Da quel che si capisce delle modalità complesse e irrisolte di cessione di poteri, funzioni e finanziamenti dallo Stato alle Regioni, ovvero, più propriamente, di decentramento e di devolution ai quali si dedicano i leghisti, della peculiarità dei Comuni, ma bisognerà vedere il decreto attuativo del federalismo municipale, si tiene poco conto. Molto male poiché le Regioni, nate quarant’anni fa all’insegna del motto (dei giuristi) di sinistra (rapidamente diventati consulenti delle Regioni e poi entrati in carriera politico-parlamentare) “le Regioni per la riforma dello Stato”, sono oggi soltanto entità grandi con notevole propensione all’accentramento di poteri e risorse a scapito dei loro Comuni. I federalisti coerenti dovrebbero oggi dimenticare le Regioni e guardare al di sotto e al disopra di quel livello di governo.
Al disotto stanno Comuni, spesso virtuosi, con un rapporto stretto e fecondo con i loro cittadini. Sono questi Comuni che meritano maggiore autonomia, almeno, semplicemente, sotto forma di non interferenza. Alcuni di loro potrebbero, come già sta scritto nella legge sulle autonomie locali, trasformarsi efficacemente in “città metropolitane”. Inoltre, tutti i Comuni dovrebbero essere i reali destinatari del sacrosanto principio di sussidiarietà oramai incastonato nelle modalità operative dell’Unione europea. È a livello dei Comuni che molti problemi, sociali, economici, amministrativi, troverebbero soluzioni più efficaci. Guardando al di sopra delle Regioni si troverà proprio l’Unione Europea. All’Ue hanno nel corso del tempo fatto riferimento e contribuito i non molti federalisti, di pensiero e di azione, italiani, fra i quali, credo che, oltre ad Altiero Spinelli, si possa annoverare lo stesso presidente della Repubblica. Invece, non sembra essere l’Europa il luogo del federalismo secondo i leghisti i quali, di conseguenza, dovrebbero, a questo punto, venire definiti “provincialisti” ovvero “federalisti che sbagliano”.
Eppure, se vogliamo costruire un’Italia migliore dobbiamo tenere in grande conto il federalismo europeo, che è il nostro futuro, e cercare di svolgere in quel contesto un’attività più incisiva. Qualche volta, infatti, le critiche alle propensioni accentratrici e burocratiche dei procedimenti europei sono assolutamente giustificate. Non sarà, però, un aumento del potere/dei poteri di alcune Regioni italiane a rendere migliore l’insieme di quel complesso ingranaggio di strutture e di funzioni che si chiama Stato. Anzi, lasciando da parte, ma non del tutto, i timori di una disgregazione lenta, di velluto, il rischio è che qualcuno pensi che, fatti i decreti attuativi, il resto della strada sarà tutto in discesa. Ma, verso dove conduce quella strada? Conduce incontro a due problemi che sembrano del tutto sottovalutati, se non addirittura trascurati: l’inefficienza e l’ipertrofia degli apparati burocratici e la voracità della partitocrazia.