lunedì 29 giugno 2009

“L'ultima carica”, come fu fatta la Storia !

“L'ultima carica”, come i cavalleggeridi Alessandria hanno fatto la storia

ROMA (27 giugno) - Ci sono date che, fosse pure per semplificare processi storici più lunghi e complessi, segnano uno spartiacque tra il “prima” e il “dopo”. Una di queste, quasi sconosciuta però, è il 17 ottobre 1942: l'ultima carica della cavalleria italiana e tra le ultime nella storia (il primato spetta ai russi un anno dopo in Crimea). Quel giorno a Dolnij Poloj, in Croazia, non solo finisce un modo di fare la guerra antico di millenni, ma si chiude anche un'epoca: romantica e aristocratica, semplice e brutale, simbiosi pura tra uomo e animale.

Per molti la data simbolo è un'altra, il 24 agosto 1942: la carica del Savoia Cavalleria a Izbusenskij, in Russia. Da anni ormai, per correggere l'errore e fare ottenere il giusto riconoscimento allo stendardo del suo reggimento, i Cavalleggeri di Alessandria, si batte un reduce: l'allora sottotenente Raffaele Arcella, napoletano, avvocato e dottore in lingue e letterature slave. Amico, tra l'altro, di quell'Amedeo Guillet, protagonista di un'altra memorabile carica in Africa (Sebastian O'Kelly, “Amedeo – Vita, avventure e amori di Amedeo Guillet, un eroe italiano in Africa Orientale”, Rizzoli 2002; Vittorio Dan Segre, “La guerra privata del tenente Guillet”, Corbaccio 1993) e con cui, il 7 febbraio scorso, ha festeggiato insieme il compleanno: Raffaelle ne compiva 89, Amedeo giusto 100.

Arcella ha ora raccolto la sua testimonianza insieme a quelle di altri nel libro “L'ultima carica. Dolnij Poloj 17 ottobre 1942” (Bonanno Editore, 152 pagine, 15 euro). A differenza di Izbusenskij, dove ad attaccare i russi sono due squadroni a cavallo e tre a piedi, a Dolnij Poloj carica l'intero reggimento, cioè cinque squadroni con lo stendardo e il colonnello in testa: una scena epica, 760 uomini lanciati al galoppo all’imbrunire contro le brigate d'assalto del maresciallo Tito. In effetti l'essere un episodio della campagna contro i titini può avere contribuito a farlo dimenticare: l'occupazione italiana dei Balcani, con le atrocità commesse da ambo le parti e le opportunità politiche del dopoguerra, è stato a lungo un capitolo rimosso della nostra storia.

Ma è anche vero che già all'indomani della battaglia c’era, negli alti comandi italiani, la voglia di cancellare. Arcella ricorda il discorso del generale Mario Roatta davanti ai cavalleggeri schierati: «Al mio superiore vaglio gli ordini impartiti sono risultati illuminati. Si cancelli ogni cosa dalle vostre memorie, rimanga quello che passerà alla storia con il nome di carica di Poloj». A quelle parole, però, il comandante del reggimento, il colonnello Antonio Ajmone Cat, esplode: «Che dirò a tante madri? Che un ordine pazzo ha stroncato la vita delle proprie creature?». Roatta volta le spalle e tace. «Servì soltanto a punire se stesso - scrive Arcella, alludendo al fatto che lo sfogo gli sarebbe costato il comando - e il Reggimento privandolo di ogni riconoscimento».

Nella carica cadono 67 cavalleggeri, i feriti sono una settantina. Anche Arcella nel suo libro si chiede se quell'ordine sia stato pazzo o no, ma conclude che la «la preparazione di cavalli e cavalieri» ha trasformato «quello che doveva essere un massacro nella più grande completa eroica ultima carica della cavalleria italiana». Non solo: «l'impeto, la decisione e la rapidità dell'azione di “Alessandria” sconvolse i piani dell'avversario e fece in modo che le truppe che seguivano il reggimento non avessero perdite». Se le brigate di Tito avessero accerchiato due reggimenti della divisione “Lombardia” e l’81° battaglione Camicie nere, per gli italiani sarebbe stato un massacro ben più sanguinoso.

Lo stesso Tito riconosce il loro valore: «Abbiamo avuto l'onore di scontrarci con i Cavalleggeri di Alessandria». «Certo, a Tito non sfuggiva niente - commenta oggi Arcella - Lui ad esempio sapeva bene che noi non applicavamo le leggi vigenti, cioè il diritto di rappresaglia. Quando i partigiani trucidarono il nostro cappellano, don Giovanni Falchetti, insieme a 11 cavalleggeri che lo stavano scortando per andare a celebrare la messa presso un altro squadrone, noi non attuammo nessuna rappresaglia. E contro chi avremmo dovuto? Contro quei civili che avevano appena assistito la messa al nostro squadrone?». Anche nel mattatoio dei Balcani, insiste Arcella, i Cavalleggeri di Alessandria mantengono un comportamento esemplare: «Tutto quello di cui avevamo bisogno lo pagavamo. E nelle ore libere dal servizio, i nostri cavalleggeri, contadini del Friuli, aiutavano quella gente nei lavoro di campagna».

La bandiera del reggimento, che dopo lo scioglimento nel 1979 è conservata nel museo del Vittoriano, aspetta ancora quella medaglia d'oro che solo il presidente della Repubblica, motu proprio, potrebbe conferire. La burocrazia cieca, le tante delusioni e le omissioni sospette non hanno piegato ancora Arcella, gli altri reduci e gli amici, soprattutto di Trieste. Stanno restaurando a loro spese la chiesetta di Poloj, dove sono sepolti i caduti, e anche i diritti d'autore del libro serviranno a questo. Sarà una battaglia dura, ma chi ha sostenuto una carica di cavalleria (e poi, dopo l'armistizio, il calvario nei campi di prigionia tedeschi) ce la può fare.

«Lei mi chiede cosa si prova in una carica? - risponde Arcella a una domanda che gli sarà stata fatta mille volte - E' un'altra dimensione, che va oltre l'umano. Qualcosa di inesprimibile, grandioso, che ti ghermisce. Come sentii le prime raffiche e gli squilli di tromba, ebbi solo il tempo di pensare: “Adesso il colonnello comincia il suo discorso con Dio e con la Patria”. Poi il galoppo, un cavallo che salta in aria, le bombe a mano che gli scoppiano tra le gambe, i miei occhi che frugano nell'oscurità. E la rapidità: tra il tempo che durò e il tempo che si impiega a raccontare c'è una differenza di secoli».

http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=63653&sez=HOME_SPETTACOLO